Le Roi de Lahore

Una giovane sacerdotessa, forzata a sposare il futuro re, incontra di nuovo il proprio innamorato e legittimo sovrano, tornato dall’aldilà per un ultimo istante accanto a lei. Da una leggenda indiana riportata in Viaggio intorno al mondo dal marchese di Beauvoir, Louis Gallet delinea il racconto dell’amore incondizionato di Sitâ ed Alim. La trama entusiasma subito Massenet, lieto di ritrovare il prezioso collaboratore di Marie-Magdeleine e di avere a disposizione un libretto così solidamente organizzato. Soprattutto, la dimensione soprannaturale del quadro del paradiso di Indra – inedito per il genere – è trattata da Gallet con quel tocco che costringe all’adesione. Avviata fin dal 1873, la composizione è completata all’inizio dell’estate 1876. Massenet scrive senza preoccuparsi del luogo della prima, pur cosciente che dovrà disporre di un teatro grande. È una partitura solida e coerente quella che propone ad Halanzier, direttore dell’Opéra, all’indomani di un incontro fortuito. La costruzione risponde al modello ereditato da Gounod e da Ambroise Thomas, in cui si alternano grandi ensemble, duetti ed arie, con un rilievo particolare dell’arioso. Massenet sembra rifiutare la grammatica rigida del grand-opéra, e confessa di essere «stato wagneriano, troppo, forse», durante la scrittura. Sì, il compositore impiega motivi di richiamo, ma la loro funzione resta moderata ed è proprio l’inventività melodica a costituire la ricchezza della partitura, che esige dai cantanti elasticità e lunghezza di voce. L’orchestra, piuttosto abituale, richiede una tuba contrabbasso, all’epoca fabbricata da Adolphe Sax, dei flicorni tenori en coulisse e alcune trombe cromatiche ancora un po’ rare. E soprattutto un sassofono tenore per lo splendido valzer del balletto.