Quartetto per archi n. 2 in la maggiore

Se vogliamo credere a Camille Saint-Saëns, che riferisce l’aneddoto nella «Revue de Paris» del 15 giugno 1897, il Quartetto n. 2 in la maggiore di Gounod non avrebbe mai dovuto essere eseguito o pubblicato: «Ero andato a far visita a [Gounod] e gli chiesi che cosa avesse fatto durante la mia assenza. – Ho scritto dei quartetti, mi disse. […]. Sono brutti, e non te li mostrerò […] – Nessuno ha mai visto quei quartetti: sono scomparsi». In effetti, benché fosse stato eseguito per la prima volta nel 1887 dal Quatuor Marsick nella sede della Société nationale de musique, il Quartetto n. 2 era poi andato perduto, finché non è ricomparso in occasione di una vendita all’asta nel 1993. La severità del giudizio di Gounod nei confronti del proprio lavoro rivela il timore di un compositore abituato a scrivere soprattutto opere nell’affrontare un genere di musica strumentale che Beethoven aveva portato ai vertici. Non a caso, come tanti altri a quei tempi, Gounod si cimentò in tale arduo compito solo sul finire della sua vita. Peraltro, anche questo quartetto, come quelli di Franck, Debussy o Ravel, attesta il ruolo svolto all’epoca dalla Société nationale de musique nel primuovere la rinascita della musica da camera in Francia. Tuttavia, Gounod si distingue dai suoi contemporanei per il suo rifiuto di ricorrere alla forma ciclica, all’ipercromatismo wagneriano o ancora a modalità extraeuropee: al contrario, il Quartetto n. 2 colpisce per il suo elegante classicismo e per la limpidezza armonica e formale dei quattro movimenti. Così, se il secondo movimento, Allegretto, per l’uso della sordina e dei pizzicati s’inserisce nella ricerca di timbri nuovi che è caratteristica del quartetto francese di fine Ottocento, il terzo movimento, che reca il desueto titolo di «Minuetto», denota uno humour di tipo haydniano, mentre il finale ricorda la verve operistica di un Mozart.